giovedì 14 luglio 2011

I radical chic ora insultano Renzo Bossi. Ma non si accorgono che i cretini sono loro.

Renzo Bossi detto il trota 
Renzo Bossi è diventato un TT su Twitter. TT è l'acronimo di Tranding Topics, cioè dell'argomento più popolare del momento. Questo è successo per la serie infinita di insulti chi gli sono stati indirizzati dai vari sapientoni, prevalentemente di sinistra, che si auto celebrano intellettuali della rete. Gli insulti sono stati ripresi anche da diversi giornali, dimostrando quanto povera sia la cultura di certi giornalisti. Tutto questo perché il nostro ragazzone ventitreenne ha registrato un video dove dice che i social network danno spazio al globalismo ma contemporaneamente aiutano anche il localismo. Lo dice senza parlare forbito, senza voce impostata, con l'accento lombardo un po' strascicato e senza la sovrabbondanza di doppie tipica della parlata romana. Sapete cosa vi dico: che sono proprio contento che il trota prenda lo stipendio da consigliere regionale. Almeno lui una categoria la rappresenta, cioè i ragazzi come lui che l'hanno votato. Mentre quella folla di scribacchini, senza contenuto e senza costrutto che lo insultano, non rappresentano proprio nessuno. I più vivono alle nostre spalle perché sono assistiti o perché sono pagati da giornali che sopravvivono grazie la finanziamento pubblico. Ma l'ironia vuole che questa banda di cretini un risultato l'abbia ottenuto: quello di far diventare Renzo Bossi ancora più popolare! 110714DanieleLeoni

lunedì 11 luglio 2011

Marina, resisti!

560 milioni di euro al cittadino svizzero Carlo De Benedetti: da pagare subito, altrimenti sei fuorilegge. Nulla contano i quasi ventimila dipendenti del gruppo Fininvest. Nulla conta il percorso virtuoso che, dalle navi da crociera, dove cantavi e guadagnavi abbastanza, passando attraverso l’edilizia, sei arrivato a fondare una TV privata che ha funzionato, con il suo contorno finanziario, di pubblicità e di varia umanità, humus vitale di tutto il mondo dello spettacolo. Nulla conta la consapevolezza che, ad un certo punto, se hai successo, arriva qualcuno più forte di te che ti vuole stroncare, che ti vuole rompere le ossa. Lo vuole fare finché sei piccolo, perché potresti crescere e diventare pericoloso. Nulla conta l’evidenza che hai combattuto con tutte le tue forze che hai vinto, una, dieci, cento volte, per il rotto della cuffia e che i più, al tuo posto si sarebbero arresi. Nulla conta che la tua sconfitta avrebbe significato disoccupazione e miseria, perché tanti altri si sarebbero arresi. Invece, seguendo il tuo esempio, hanno trovato la forza di combattere e di vincere a loro volta.
Marina Berlusconi presidente Fininvest e Mondadori.
Mia madre adora Silvio Berlusconi. Mi dice sempre che aveva una bella voce quando veniva a cantare, l’estate, alla Casina del bosco di Rimini. Io non lo ricordo perché avevo solo otto anni ed ero preso da altre cose. Mi piaceva l’elettricità e avevo costruito un telegrafo con cui comunicavo col mio amico Giorgio della casa accanto. Poi avevo fatto una radio galena, che ascoltavo in cuffia. Mi ricordo invece che, l’estate, si dormiva tutti  in una stanza  sola e si usava il bagno piccolo perché, il resto della casa, era affittata all’Hotel Bamby per i turisti. E mia madre cuciva sempre, anche di notte, seduta sopra il tavolo della cucina, vicino alla lampadina, così ci vedeva meglio. La mattina dopo doveva consegnare i pantaloni e le altre riparazioni ad un negozio di abbigliamento. E il padrone, se sgarrava, aveva tante sartine in fila pronte a prendere il suo posto. La mia mamma, che si era cavata gli occhi con ago e filo, che si era rotta la schiena, quando, vent’anni dopo, Canale 5 fece discutere parecchio perché il grande impresario Silvio Berlusconi aveva sfidato il monopolio pubblico, diceva a tutti ammirata: - Che bravo ragazzo! Che bella voce! … -
Io invece, nel 1982, facevo qualche regia televisiva  alla Rai. La mia specialità era il documentario scientifico ed ero bravo.  Uno dei miei compagni di lavoro, precario come me, era Loris Mazzetti,  oggi capo struttura di Rai tre, quello che ha fatto vieni via con me con Roberto Saviano. Anch’io provai ad andare a Canale 5 per propormi.  Non ebbi fortuna perché il curatore delle rubriche scientifiche era Jas Gawronski, il cui stile era molto diverso dal mio. Il mio mito era David Frederick Attenborough della BBC e la mia impostazione era analoga a quella di Alberto Angela di oggi, che di Attenborough ha ereditato lo stile arricchendolo.
Alberto Angela, figlio d’arte,  ha tutta la mia ammirazione. Però io, poco dopo, rinunciai alla televisione, alla Rai e rinunciai anche al documentario scientifico. Partii con la mia avventura di imprenditore in campo tecnologico creando servizi innovativi per i teatri. Rimasi quindi nel mondo dello spettacolo. Debbo dire che feci bene perché ottenni ottimi risultati. Silvio Berlusconi, che non ho mai incontrato personalmente, era l’apripista,  per me come per migliaia di altri ragazzi dei primi anni 80. Era un imprenditore molto, molto bravo. Era un uomo da imitare.
Carlo De Benedetti.
Da quel lontano 1982 ho seguito le vicende della Fininvest con attenzione. Se non altro perché, con un’azienda di cento persone, Canale 5, teneva testa alla Rai che aveva trentamila dipendenti. Silvio Berlusconi mi è sempre parso una persona capace e ambizioso. E Quando l’ambizione si sposa con la competenza, con l’intelligenza vivace e con la forza di carattere, allora possono compiersi dei miracoli. Come tanti grandi italiani hanno compiuto.  In verità il mio stile di vita, il mio carattere e le mie priorità non sono state le stesse di Berlusconi. Lui è un fervente cattolico e io sono ateo. Lui, come tutti gli uomini di spettacolo, è molto sensibile alle apparenze, io invece bado molto alla sostanza e, qualche volta, anche alla forma. Io sono cresciuto con l’informatica, sono stato uno dei pionieri di internet, credo che la televisione e la stampa tradizionale siano in via di superamento. Lui invece è diffidente verso il popolo della rete.  Io non ho mai dato una grande importanza al denaro.  Lui invece l’ha sempre considerato il fattore principale della sua attività e questo ha salvato la vita alle sue aziende e, assieme alla loro, la vita del nostro Paese.
Quando, nel 1994, scese in campo per impedire che il Paese finisse in mano a mercenari prezzolati le cui teorie e convinzioni  erano state sconfitte dalla storia, salvò la vita a tante imprese. E fece molto di più: riaprì la possibilità di costruire, nel tempo, un terreno di confronto fra una destra democratica e moderata e una sinistra, anch’essa democratica e moderata, come negli Stati Uniti d’America. Certo, come negli Stati Uniti, dove i disfattisti, i terroristi e gli antiamericani sono fuorilegge. In Italia, invece, dopo la morte dell’ultimo grande moderato, testa pensante di sinistra, Plamiro Togliatti, le teste vuote del  partito comunista italiano, incapaci di iniziativa autonoma, si dovevano pur affidare a qualcuno. Si affidarono innanzi tutto all’Unione Sovietica di Breznev , che nel 1964, proprio nell’anno della morte di Togliatti, depose Nikita Khruscev. Furono sostenuti, i comunisti italiani orfani, da cospicui finanziamenti sovietici. Breznev però non finanziò solo il PCI. Finanziò anche la strategia della tensione, il terrorismo politico e, infine, le brigate rosse. Ecco perché, nella seconda metà degli anni sessanta, crollarono velocemente tutti gli indici del miracolo economico italiano, le fabbriche diventarono campi di battaglia e la strage di Piazza Fontana chiuse il decennio nel quale i nostro Paese perse tutte le sue opportunità. Nel decennio che seguì, quello che io chiamo il decennio grigio delle geometrie impossibili, a tener bordone a Moro e Berlinguer che inventavano le convergenze parallele, ecco che spunta Carlo De Benedetti.  Carlo De Benedetti non ha fatto Milano 2, non ha creato Canale 5 ma ha comparato quote, sfruttato amicizie, occupato poltrone di presidente degli industriali, di amministratore delegato della Fiat, poi dell’Olivetti . Olivetti che, con la sua dabbenaggine, è riuscito a distruggere. 
Locandina del film sul caso Calvi.
Fu anche vice presidente del Banco Ambrosiano nel periodo della sinistra morte di Roberto Calvi, impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra. Quel De Benedetti che, con la complicità di Romano Prodi, tentò lo scippo della SME, il gioiello dell’Iri, scippo sventato da Bettino Craxi nel 1985. Due anni dopo tentò la scalata a Mondadori, contrastata da Silvio Berlusconi, che finì col ben noto “lodo” cioè la spartizione di Repubblica e l’Espresso che rimasero a De Benedetti e Panorama e Mondadori Libri a Berlusconi. Infine tangentopoli con lo strascico di veleni e di lutti, dove il nostro si dichiara colpevole di aver pagato tangenti, per dieci miliardi di lire, ma riceve un trattamento di favore: solo un giorno di arresti, poi libero e scagionato. Nel 1994 Silvio Berlusconi fonda Forza Italia, mostra la faccia, scende in campo, vince le elezioni. Intanto Mondadori prospera come editore, le cui uniche regole sono quelle del mercato, non il colore politico. Le televisioni Mediaset prosperano, anch’esse regolate solo dal mercato.
Adesso il tentativo di esproprio a Mondadori di ben 560 milioni di Euro sulla base di un teorema convalidato dalla corte d’appello di Milano. Parliamoci chiaro: la famiglia Berlusconi ha la disponibilità della somma e potrebbe evitare di resistere, certa che il gruppo Fininvest recupererebbe presto il maltolto agendo in armonia col mercato e che i suoi nemici sono destinati al fallimento come tutti i settari, faziosi, anti italiani, condannati dall’economia e dalla storia.  Ma la Mondadori ha il dovere di resistere con ogni mezzo legale perché quei 560 milioni in mano al cittadino svizzero Carlo De Benedetti sarebbero usati contro di noi. Sarebbero usati per sostenere il nuovo terrorismo del black block fascisti e comunisti, che poi è la stessa cosa. Marina, resisti. Piegati come il giunco nella tormenta. Fallo per mia mamma, china sul cucito, piccola protagonista del miracolo economico della Rimini dei primi anni 60, che si accorse, allora, che tuo padre era un grande! 110711 Daniele Leoni

sabato 2 luglio 2011

Il nostro orgoglio e il loro pregiudizio.

Un manifesto ispirato da Palmiro Togliatti.
Mi ricordo bene, anche se avevo solo otto anni, il manifesto dei comunisti italiani del 1961. Era un manifesto dove dominava un grande cielo azzurro con una falce un martello stilizzati bianchi. Sopra la falce c’era un missile stilizzato, anch’esso bianco, lanciato verso il cosmo. In basso, a distesa fino all’orizzonte, un panorama di fabbriche e cantieri. A testimoniare quanta forza avesse, di quali miracoli potesse essere capace l’uomo, finalmente libero dalla schiavitù. L’uomo libero che voleva conquistar le stelle. Il manifesto commemorava la rivoluzione russa ed era ispirato da Palmiro Togliatti.
Togliatti fu un grande leader. Lo fu più di Pietro Nenni, più di Giuseppe Saragat, più di Ugo La Malfa. Ebbe il merito e la colpa di essere veramente “il migliore”, di essere contemporaneamente moderato e comunista. In virtù del suo equilibrio e alla sua moderazione, in Italia si insediò, nel dopoguerra, il più forte partito comunista dell’occidente. Ciò accadde perché egli capì che gli italiani non sono un popolo di rivoluzionari. Così si affrettò a disarmare quei partigiani che volevano trasformare il Paese in una repubblica socialista e, con la svolta di Salerno, antepose la lotta antifascista alla fine della monarchia. Fu protagonista dei governi del periodo costituzionale transitorio, dal 1943 al 1947. Ebbe un ruolo determinate nel 1946, evitando di trasformare lo scontro fra monarchici e repubblicani in guerra civile. Seppe passare la mano dopo  la sconfitta del fronte popolare del 18 aprile 1948. Vittima di un attentato due mesi dopo, appena fuori dalla sala operatoria, si adoperò per calmare gli animi dei suoi compagni, già pronti ad imbracciare il fucile.  Nei sedici anni che seguirono fu un buon capo dell’opposizione. Aveva cultura industriale e favorì il boom economico italiano degli anni 50 assieme ad Alcide De Gasperi.  Negli anni successivi assieme ad Amintore Fanfani. Non mi stancherò mai di ricordare che,  come fu Enrico Mattei, democristiano, il braccio armato di Alcide De Gasperi per lo sviluppo industriale dell’Italia, il comunista Felice Ippolito, presidente del CNEN, artefice del gioiello nucleare italiano, fu il braccio armato di Palmiro Togliatti. La morte inaspettata di Togliatti nel 1964, all’età di 71 anni, lasciò il maggiore partito della sinistra italiana senza guida. Rimaneva il testamento politico, che indicava la via democratica ai comunisti italiani, frastornati.
I dirigenti del PCI non capirono il significato di quel testamento che era apertamente socialdemocratico. Non cercarono, Luigi Longo ed Enrico Berlinguer, l’incontro con i socialisti di Pietro Nenni e Giuseppe Saragat ma seguirono geometrie di impossibili “convergenze parallele” enunciate da un altro orfano: Aldo Moro. La classe politica che ereditò la mirabile costruzione di Togliatti e di De Gasperi, di questa nostra Repubblica Democratica fondata sul Lavoro, e quindi sulla tecnologia, non aveva nulla di tecnologico e nulla di scientifico. I ritmi di crescita italiani degli anni 50 e dei primi anni 60, senza eguali nel mondo,  rallentarono bruscamente, dopo la morte di Togliatti fino alla paralisi degli anni 70. Il terrorismo politico delle brigate rosse sostituì le ambizioni di progresso. Le bombe e le pallottole uccisero la curiosità e la voglia di avventura. Nemmeno Bettino Craxi colse il nocciolo del problema che era, in buona sostanza, di cultura industriale.
Chicco Testa, ex presidente Enel
Erano passati quasi vent’anni da quando, bambino, rimasi affascinato da quel manifesto comunista azzurro. Era il 1979 e io, giovane socialista, fui incaricato da Craxi e da Martelli, di fare la Legambiente.  Dovevo farla assieme ai comunisti, utilizzando l’ARCI (Associazione Ricreativa Culturale Italiana) come struttura di supporto. Mi misi al lavoro e stabilii i paletti. Prima di tutto si doveva garantire la compatibilità fra lo sviluppo industriale la tutela dell’ambiente. Poi occorreva individuare gli elementi di grande impatto ambientale, che inevitabilmente si traducevano in diseconomie,  e proporre la loro correzione. La mia teoria era che la tutela dell’ambiente corrispondeva sempre ad un uso razionale delle risorse quindi, in definitiva, sarebbe convenuto a tutti razionalizzare il sistema: era un problema di intelligenza. Infine, nel caso i nostri interlocutori fossero stati sordi, allora bisognava ricorrere a forme di lotta in accordo coi sindacati e le altre organizzazioni.  Ma non ci fu niente da fare. I primi due passaggi venivano sempre ignorati e la fase tre era obbligatoria perché, altrimenti,  secondo i comunisti non si creava il movimento. Infine c’era un obiettivo sempre buono: quello antinucleare. Dopo qualche tempo arrivò Chicco Testa, giovanissimo, fondamentalista , strenuo difensore della “natura selvaggia” e poco attento alla “natura umana”. Io rinunciai perché per le mie convinzioni non c’era spazio. Provò Maurizio Sacconi, anche lui molto giovane, a mettere un po’ d’ordine nel neonato movimento ecologico italiano, ma non mi risulta abbia ottenuto risultati apprezzabili. Chicco Testa invece fece carriera. Prima deputato del PCI, poi presidente dell’Enel, col compito di smantellare l’industria nucleare italiana. Dopo molti anni, a frittata fatta, Chicco Testa si è ricreduto e ha denunciato pubblicamente il non senso antinucleare italiano. Ma, a quel punto,  è terminata la sua carriera politica e si è ritirato a vita privata.
L'elezione di Angelino Alfano Segretario del PDL
Ieri ho ascoltato il bellissimo intervento di Angelino Alfano al consiglio nazionale del PDL. Mi sono riconosciuto nelle sue parole fin dal suo esordio, quando ha raccontato l’incontro del 1994 con Forza Italia e con un imprenditore sceso in campo col sole in tasca e tanta voglia di cambiare il Paese. Era un imprenditore, non un politico, perché di un imprenditore c’era bisogno. Bisognava riscoprire la cultura industriale degli anni 50, quella voglia di volare e di sfide apparentemente impossibili che unì, negli intenti, i padri fondatori della Repubblica. Purtroppo quegli intenti furono travolti dai pregiudizi dilaganti dei decenni successivi con divaricazioni che sfociarono anche nel terrorismo. Poi la fase grigia di quando sembrava tutto fosse perduto e infine il colpo di mano per imporre l’egemonia degli sconfitti dalla storia. Sono passati diciassette anni da allora e, un mese fa, è successa una cosa salutare. C’è stata una batosta elettorale a metà mandato. Una batosta a cui si è reagito come negli Stati Uniti, per la prima volta nella storia repubblicana. Nel PDL, lasciate da parte le polemiche, si sono ipotizzate le primarie, quelle vere, non quelle addomesticate. E l’imprenditore col sole in tasca ha proposto una nuova guida, dopo aver costruito, pazientemente e con orgoglio, le condizioni perché fosse accettata in modo unanime. Questo è avvenuto dopo l’ultimo atto di arroganza e di disinformazione che, con i referendum, ha fatto prevalere l’ulteriore affossamento delle nostre prospettive di crescita e di sviluppo. Una bella reazione, degna dell’alba della repubblica. Anzi, di più, perché ora è stato garantito il ricambio, cosa mai avvenuta prima. Ma garantire il ricambio non è una prudenza da politici. E' da imprenditori lungimiranti, quelli con la cultura industriale. 110702 DanieleLeoni