sabato 30 novembre 2013

Tristezza

Tristezza perché mi ricorda Bettino Craxi
C’è stata tristezza nell’osservare la vicenda della estromissione, per via giudiziaria, di Silvio Berlusconi dal Senato. Tristezza perché mi ricorda Bettino Craxi anche se, fra i due, non c’è paragone. Però stessi carnefici: giudici “democratici” e tribunali che non esitano a condannare anche in presenza di un evidente ragionevole dubbio; non foss’altro che per l’intima convinzione di milioni di italiani in tal senso. Stessa minoranza estremista urlante con la bava alla bocca questa volta però senza lancio delle monetine perché Berlusconi è ricco e viene accusato di aver comprato, non rubato. Comprato il suo partito, i suoi sodali, i politici avversari che hanno cambiato casacca, le sue donne di letto e di festini. L’accusa vera è quella di aver comprato e corrotto senza ritegno, piegando alla sua volontà, ritenuta perversa, uomini e donne del popolo e dello Stato. Alla frode fiscale non ci crede nessuno perché Silvio Berlusconi ha sempre pagato tutti, per primi i suoi dipendenti e i suoi collaboratori. Li ha pagati anche troppo, tanto quanto nessun altro imprenditore privato riesce a fare. Che senso avrebbe avuto frodare il fisco per pochi milioni di euro quando il suo esborso fiscale è di miliardi? Però è stato condannato per una presunta frode sulla quale è stato scagionato colui che ha firmato i bilanci di Mediaset incriminati. Bettino Craxi invece venne accusato di aver rubato perché non era ricco e non poteva comprare la politica. Bettino fuggì in Tunisia perché le sue scarse risorse non gli avrebbero consentito di pagare collegi di difesa formati da principi del foro e perché il parlamento fece spallucce di fronte all’evidenza del finanziamento illecito dei partiti generalizzato. E perché gli accusatori più feroci, oltre a presentare anch’essi bilanci falsi, si macchiarono dell’aggravante di alto tradimento facendosi finanziare dal nemico. Ora dopo, vent’anni, la storia si ripete nonostante il fallimento conclamato delle purghe di Mani Pulite. Che tristezza. 131129 Daniele Leoni

Pubblicato anche da Il FOGLIO
Pubblicato anche da l'Avanti! come commento all'editoriale di Mauro Del Bue "Quando cade un avversario"

lunedì 18 novembre 2013

Il renziano De Benedetti

Giorgio Napolitano con Carlo De Benedetti e Marco Tronchetti Provera
Carlo De Benedetti ora si schiera con Matteo Renzi. La decisione, annunciata dal Corriere della sera il 13 novembre con un’intervista di Alan Friedman, ha già influenzato il messaggio pubblico dell’astro nascente della sinistra italiana. Ieri sera, a Che tempo che fa, abbiamo ascoltato un Renzi che non punta più ad un PD “cool”, snello, fresco e americano. Ha violentemente virato per un PD che non si limiterà ad eleggere i suoi al Governo delle istituzioni ma che pretenderà anche di tirare i fili dei loro comportamenti su ogni dettaglio, siano essi amministratori locali, parlamentari o ministri. Un partito, quello del novello Renzi, che ricorda il centralismo democratico e le cinghie di trasmissione dei comunisti. Un partito che pretenderà di tenere le istituzioni e la “società civile” sotto la sua cappa di piombo. E se qualcuno riuscisse a sfuggire alle maglie strette del controllo renziano, ci sarebbe sempre il primato dei giudici sui politici a rimettere le cose a posto. Del Berlusconismo vuole mantenere il lato meno edificante, quello che consiste nell’imperversare dell’informazione superficiale e pettegola funzionale al disorientamento del pubblico e non al consolidarsi di opinioni ragionate.
Matteo Renzi a Che tempo che fa.
Spero ardentemente che Matteo Renzi si accorga presto della trappola che lo aspetta perché il disegno è chiaro: governanti deboli e sotto ricatto permanente; partito d’apparato con poteri di nomina e di guida; militanti formati alla scuola di Repubblica e L’Espresso. Arbitro: Il fatto quotidiano. Spauracchio: il tintinnio di manette. Il burattinaio, sarà comunque lui, Carlo De Benedetti, che non scende in campo direttamente anche perché non è cittadino italiano. Le parole di Marco Tronchetti Provera, presidente della Pirelli verso il nostro apprendista burattinaio, riportate dai giornali mentre andava in onda la fiction televisiva su Adriano Olivetti, la dicono lunga sul dato della doppia cittadinanza: “E' evidente che io e l'ingegner De Benedetti non parliamo la stessa lingua, come e' normale possa succedere tra un cittadino italiano e un cittadino svizzero…” Non è nemmeno chiaro dove De Benedetti paghi le tasse, anche se lui dichiara di aver mantenuto la residenza fiscale in Italia. O se le paghi proprio tutte. Per esempio, l’anno scorso, la Commissione Tributaria Regionale di Roma ha condannato il Gruppo Editoriale L’Espresso ad un multa di 225 milioni di euro per un’evasione fiscale risalente al 1991. Ma la notizia è passata in sordina. Ne parlò solo Il Fatto quotidiano, una volta sola, poi più nulla. E’ proverbiale la capacità di Carlo De Benedetti di lanciare il sasso e nascondere la mano. In vita sua ha sempre comprato quote, sfruttato amicizie, occupato poltrone. Presidente degli industriali, amministratore delegato della Fiat dove venne cacciato, poi dell’Olivetti che, con la sua dabbenaggine, riuscì a distruggere: questo secondo Tronchetti Provera, e non solo. Fu anche vice presidente del Banco Ambrosiano nel periodo della morte di Roberto Calvi, impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra. Quel De Benedetti che, con la complicità di Romano Prodi, tentò lo scippo della SME, il gioiello dell’Iri, scippo sventato da Bettino Craxi nel 1985. Due anni dopo tentò la scalata a Mondadori, contrastata da Silvio Berlusconi, che finì col ben noto “lodo” cioè la spartizione di Repubblica e l’Espresso che rimasero a De Benedetti, Panorama e Mondadori a Berlusconi. Infine tangentopoli con lo strascico di veleni e di lutti, dove si dichiarò colpevole di aver pagato tangenti, per dieci miliardi di lire, ma ricevette un trattamento di favore: solo un giorno di arresti, poi libero e scagionato. E’ stata l’abilità tipica di chi antepone la finanziaria al risultato industriale. Finissimo fabbricante di trappole che catturano ricchezza a spese della collettività senza produrre nulla di tangibile in cambio. Non una grattacielo, non un ponte, non una fabbrica, non una rete informatica, non una macchina capace di vincere e nemmeno una squadra sportiva per far sognare. Ecco perché lui è cittadino svizzero: perché non ha niente dell’ingegno italiano che disegna, che progetta, che inventa e che costruisce. Il primo risultato della strana alleanza con Matteo Renzi sarà, secondo quanto riportano i giornali, l’uscita dal Governo di un Ministro molto bravo, il Ministro della giustizia, che ha lavorato parecchio in questi pochi mesi di attività. Forse ha lavorato troppo e ha dato fastidio a qualcuno. Anna Maria Cancellieri vorrebbe andarsene: allora si sta pensando ad una avvicendamento che garantisca la continuità del suo lavoro. Perché tra le qualità del Ministro ce n’è una molto rara: quella di non considerasi insostituibile. Quel che conta è la squadra. La squadra e il progetto per smantellare l’oligarchia che vorrebbe la politica e la giustizia al proprio servizio. 131118 Daniele Leoni

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Il Calcestruzzo

domenica 10 novembre 2013

Segnali di fumo

Una torre del telegrafo Chappe
La bella fotografa lasciò la bambola e la foto sul sedile della macchina. Era il messaggio cifrato per chiedere ad Adriano un appuntamento segreto. Il luogo era quello della foto, in campagna dove lei cadde col paracadute e fu aiutata a fuggire dai nazisti. Solo Adriano poteva associare la bambola, comprata in una bancarella a Pozzuoli, dove sarebbe sorto il nuovo stabilimento Olivetti, con la persona e il luogo dell’incontro. Nessun biglietto. Scrivere qualsiasi cosa sarebbe stato pericoloso. “Le ho chiesto di venire qui perché, qui, nessuno ci può ascoltare. Lei è una grande persona e questo non era previsto. Deve stare molto attento: gliela faranno pagare. Interverranno pesantemente contro la Olivetti, sia a livello politico che economico ...” E’ una delle drammatiche scene finali della fiction televisiva su Adriano Olivetti che, di li a poco, sarebbe morto per un malore, in treno, diretto a Losanna. Una tragica coincidenza o l’effetto di un veleno fatale che non lascia tracce? Ho già scritto che le vicende legate alla spia dei servizi americani sono pura fantasia. Sono una licenza poetica che però sostiene tutta la storia e rende bene l’idea di quale fosse il clima, nell’Italia del boom economico e in piena guerra fredda. Ci fa anche capire che lo spionaggio e le intercettazioni non sono una novità ma hanno sempre unito, in ogni epoca, le tecnologie più sofisticate, l’ingegno e la perfidia. Hanno anche ispirato i romanzi e dei romanzi sono stati il contrappunto. Mi ricordo Il conte di Montecristo, di Alexandre Dumas, dove il protagonista corrompe un operatore del telegrafo ottico Chappe per fargli trasmettere un messaggio falso. La notizia fasulla informava che Don Carlo era fuggito da Bourges ed era rientrato in Spagna. La fuga avrebbe fatto crollare il valore dei titoli del prestito spagnolo. Il finanziere Danglars, nemico di Edmond Dantes, vendette sottocosto tutti i titoli in suo possesso. Il giorno dopo i giornali scrissero che, per colpa della nebbia, un segnale telegrafico era stato frainteso così da diffondere la falsa notizia. I titoli ritornarono subito al loro prezzo ma Danglars perse più di un milione di franchi. La vicenda narrata da Dumas è del 1838. In quegli anni, dall’altra parte dell’oceano, Samuel Morse inventava il telegrafo elettrico che, in pochi anni, avrebbe mandato in pensione migliaia di operatori Chappe, ognuno con la sua torre. E resa inutile la loro singolare abilità di leggere le aste snodate che danzavano tutto il giorno su una torre lontana, di replicarne forma e configurazione in favore dell’operatore della torre successiva. La danza delle aste snodate conteneva messaggi in codice il cui significato non era noto agli operatori lungo la linea, ma solo agli addetti della stazione ricevente e trasmittente distanti centinaia di chilometri. Erano perlopiù comandi militari che trasmettevano informazioni al quartier generale e ricevevano ordini con codifiche che variavano frequentemente per adattarsi al mutare delle esigenze e per ragioni di sicurezza. Il telegrafo ottico nacque in Francia alle fine del 1700 ed ebbe una notevole diffusione in Europa per merito di Napoleone Bonaparte. Contribuì a far crescere la cultura dei messaggi teletrasmessi e della loro codifica su cui si innesto facilmente il più sicuro telegrafo elettrico che si diffuse a partire dal 1850.
Elea 9000 Olivetti in una foto del 1960. Fu il primo al mondo a semiconduttori.
Con il 1900 arrivò la radio e la telegrafia senza fili e, dopo un altro mezzo secolo, il primo calcolatore elettronico. Gli antenati della corsa alla digitalizzazione e alla tele-trasmissione di volumi sempre più consistenti di dati sono i segnali di fumo degli indiani d’America e i tam-tam africani. Come per i segnali di fumo, la caratteristica dei dati digitali è quella di essere visibile o udibile da tutti. Il telegrafo ottico poteva essere osservato da chiunque. Le trasmissioni del telegrafo elettrico e del telefono dovevano essere duplicate, amplificate, smistate, quindi facilmente intercettate. Idem per le trasmissioni radio e televisive. I pacchetti di bit della rete internet e dell’universo odierno delle telecomunicazioni hanno la stessa caratteristica. Ciò che li rende non immediatamente intellegibili da chiunque è la loro codifica.
Il monitor a pulsanti di Olivetti Elea 9003
Ma un codice, per quanto furbo possa essere, è sempre una sequenza di combinazioni logiche svelabile con una serie di tentativi: dipende dal tempo e dalla velocità di calcolo. L’unico modo per proteggere la comunicazione fra due o più punti è condividere una sequenza di chiavi che cambino, in modo sincrono, per esempio ogni secondo. Così non si da il tempo agli spioni di decodificare il segnale. I comandi militari e i servizi segreti, lo fanno. Anche il Presidente degli Stati Uniti, a cui è stato aggiornato, di recente, il BlackBerry. Ma per noi, comuni mortali, è troppo complesso oltre che costoso. Ci dobbiamo rassegnare alla possibilità di essere permanentemente sotto osservazione e a tenere un comportamento conseguente. Ci deve consolare che nessuno è interessato a quello che facciamo nella vita di tutti i giorni, escluse le nostre preferenze che orienteranno le offerte commerciali. A meno che non commettiamo dei reati. Se però dobbiamo condividere un gran segreto o abbiamo fatto una scoperta straordinaria di eccezionale valore, dobbiamo parlarne solo a quattr’occhi, non al telefono. E nemmeno mandare un’email. Se è un segreto può rimanere tale. Se invece è un’idea commerciale o un trovato tecnologico tuteliamoci in fretta con un brevetto e facciamo presto a metterlo in pratica. Anche in questo caso il tempo è determinante come la nostra capacità di elaborazione e di realizzazione. 131110 Daniele Leoni

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sabato 2 novembre 2013

Fondamentalisti, inquisitori della peggior specie!

Lo screen shot della discussione su facebook.
Si chiama Claudio Pace. E’ uno degli amici del mio profilo Facebook che è molto selettivo, uno di quegli amici che mi consente di essere cittadino del mondo davanti alla tastiera. Di mestiere fa l’auditor a Terni agli Acciai Speciali, valuta cioè la qualità sulla base delle specifiche concordate col committente. E’ uno di quelli che decide se l’acciaio può essere destinato al nocciolo di un reattore nucleare oppure se va bene solo per i coltelli da cucina. Ebbene Claudio ha partecipato, su Facebook, a una discussione che si è scatenata ieri fra me, il Senatore Enrico Buemi e il nostro Direttore dell’Avanti! Mauro Del Bue. L’argomento era Matteo Renzi e il fatto che abbia o non abbia la “bava alla bocca” come buona parte dei militanti del PD. Io sono uno dei tanti ex elettori di Berlusconi, socialista quando c’era il PSI di Bettino Craxi, orfano che aderì a Forza Italia nel 1994, che restituì indignato la tessera nel 2005 quando venne emanata la legge Calderoli “porcellum”. La candidatura di Matteo Renzi alla segreteria del PD mi ha aperto il cuore. Ho partecipato alle ultime primarie per votarlo e mi sono riavvicinato al PSI per influenzarlo con un messaggio socialista liberale. Ieri però è arrivato un tweet di Antonio Funiciello, renziano, membro della segretaria nazionale del PD, responsabile per la cultura e le comunicazioni. Questo è il tweet: “Il ministro Idem impiegò 10 giorni a dimettersi. Alfano 10 giorni per non dimettersi. Vediamo quale record batterà il ministro Cancellieri.” Mi ha gelato il sangue. Ho subito risposto, su Facebook, ai miei illustri interlocutori “Se Renzi dovesse schierarsi fra manettari contro la Cancellieri per far cadere il governo Letta, vuol dire che anche lui ha la bava alla bocca. Allora, in caso di elezioni anticipate, non resterebbe che votare Berlusconi! Non è così che Berlusconi vince le elezioni?” Claudio Pace ha concluso: “Durante la campagna elettorale ho partecipato ad un incontro a Roma in cui era presente Giulio Tremonti il quale profetizzò che questa legislatura non sarebbe durata molto, forse nemmeno un anno. Vediamo se fu profeta. Renzi recentemente ha cambiato tutto, da rottamatore foriero di novità e liberista è andato a cercare tutti perfino il sindaco Orlando di Palermo, uno degli assassini politici della prima repubblica che adesso tanti rimpiangono. Cosa voglia fare da grande Renzi non si è ancora capito, non si capisce al di là degli slogan e delle simpatie, che attira sempre meno, quale è la linea politica che intende perseguire…”
Questa mattina, dopo averci dormito sopra, di buon'ora, ho tempestato di tweet, email, sms tutti coloro che potevano mettere sull'avviso Matteo Renzi, che così non va. Che il suo sodale, Antonio Funicello, non ha fatto solo una leggerezza ma ha scritto un'enormità degna dei fondamentalisti inquisitori della peggior specie. Se il comportamento di Renzi sarà quello paventato dai miei amici allora, purtroppo,  resterò orfano e, per la prima volta in vita mia, non andrò a votare.
131102 Daniele Leoni

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venerdì 1 novembre 2013

Non credo in Dio ma Dio lo scrivo con la lettera maiuscola.

Papa Francesco accenna il baciamano a Rania di Giordania
Mi piacerebbe molto che l’Italia trovasse la sua strada a partire dalla sua costituzione fondata sul lavoro. Che sapesse, con equilibrio, percorrere tutti i passaggi delle modifiche per migliorarla e adattarla alle mutate esigenze della società che cambia. Che trovasse un accordo, almeno sulle regole di base. Purtroppo c’è stata una lacerazione profonda che prese le mosse dal colpo che venne inferto all’Italia, nei primi anni 60, perché la sua economia correva troppo. Non si sa se furono i servizi segreti americani a farlo direttamente oppure se lasciarono fare i colossi multinazionali della nascente elettronica e del petrolio che si avvalsero, senza pudore, della criminalità organizzata. In quegli anni Mosca eresse il muro di Berlino e inondò di rubli il Partito Comunista Italiano.
Enrico Mattei e Giorgio La Pira
Ma Palmiro Togliatti, che andava maturando idee socialdemocratiche, dopo aver promosso l’amnistia, disarmato i partigiani, impedito la sommossa popolare a seguito dell’attentato, morì a Jalta mentre stava elaborando i famoso memoriale. Il flusso di rubli non si interruppe ed Enrico Berlinguer, che non era Togliatti, non riuscì ad impedire il terrorismo politico delle brigate rosse. Poi arrivo Bettino Craxi che si difese a gomitate dalle ingerenze straniere ma fu castigato. Inventarono tangentopoli per eliminarlo. Nessuno si chiese allora, come non si chiede oggi, se attingere a man bassa a finanziamenti sovietici, in piena guerra fredda, fosse o non fosse alto tradimento. Silvio Berlusconi fu la risposta. Però in Italia aveva attecchito una casta di burocrati generata dai rubli di Bresnev, casta che era emanazione dell’ex Partito Comunista, annidata nei gangli vitali della società italiana, che si autoalimentava. La magistratura, culturalmente affine a quella casta, si scagliò contro Berlusconi per eliminarlo.
L’ingresso di Berlusconi in politica fu una anomalia provocata dalla sconfitta, per mano giudiziaria, dei socialisti e di Bettino Craxi. Una anomalia accentuata dalla legge Calderoli del 21 dicembre 2005 che ha modificato il sistema elettorale italiano e ha delineato la disciplina attualmente in vigore. Una disciplina di guerra. Una ulteriore lacerazione! Un colpo basso alla democrazia che servì a consolidare due caste contrapposte: quella generata dai rubli sovietici e quella alimentata, vent’anni dopo, dal patrimonio personale di Berlusconi. Ecco perché continuiamo a essere in guerra. E’ una guerra senza esclusione di colpi dove le regole non esistono più e il Paese soccombe con la sua economia, la sua industria, le sue infrastrutture come sotto un bombardamento.
Matteo Renzi candidato segretario del PD
Per questo motivo abbiamo bisogno di Matteo Renzi al vertice del PD. Perché è l’unico che riesce, in questo clima, a riempire le piazze con folle che non hanno la bava alla bocca e lo fa senza sponsorizzazioni private ma con un finanziamento volontario diffuso. Renzi sta costruendo l’unico vero elemento di discontinuità potente in grado di fermare una guerra che dura da cinquant’anni. Se è la legge elettorale dei sindaci che ha le condizioni di passare, ebbene che passi la legge dei sindaci. Io non sono d’accordo con Renzi su mille cose però rispetto il suo stile e lo spirito di chi lo segue. L’alternativa è che questa guerra finisca con la bomba di Hiroshima. Non credo in Dio ma Dio lo scrivo con la lettera maiuscola. Lo faccio per rispetto dei tre quarti dell’umanità che professa una fede e, pur avendo l’assoluta certezza di avere ragione, metto nel conto che questa mia assoluta certezza possa essere confutata. Non ho l’assoluta certezza che il sistema maggioritario bipolare sia il migliore possibile però mi intriga molto l’escamotage statunitense dei due partiti, dei matti fuori legge, del presidente con poteri immensi ma con un drastico limite temporale al suo mandato. Dei giudici eletti e non selezionati per concorso. E’ un sistema che regge e fa, di quella americana, la più vecchia e longeva democrazia del mondo. 131101 Daniele Leoni